Il centosessantesimo numero, che troverete in edicola domani, contiene la conclusione dell'avventura di Zagor con il ritorno di Marie Laveau, nonché la prima parte della storia “La terra della libertà”.
LA REGINA DELLA CITTÀ
MORTA
Sulle tracce di Jacques Lassalle procedono,
oltre a Zagor e Cico, anche Denise, la combattiva figlia del capitano Jean
Lafitte, e i suoi angeli custodi, Jerome e Van Sutter. Per tutti, la ricerca
conduce al mitico regno di Songhay e alla sua magnifica sovrana, ma non tutti
vi giungeranno per la medesima via, anzi qualcuno, come il povero Jerome, non
vedrà mai le maestose mura della città nella giungla.
Chi è la regina della mitica città sepolta
nella giungla? A chi obbediscono i guerrieri zombi che hanno catturato Zagor?
Una vecchia conoscenza dello Spirito con la Scure ritorna, più potente e
insidiosa che mai. Al punto da far credere a uno Zagor privo di memoria di
essere la reincarnazione del semidio Damballah, convincendolo a catturare i
suoi amici, Cico e Digging Bill…
Un impero oscuro di maghi tenebrosi, zombi e
palazzi in rovina, dove Marie Laveau, la bella strega vudù alleata al
negromante Vendhys, vuole evocare spaventosi demoni. Questa è la scena in cui,
alla ricerca di Jacques Lassalle, giocano la loro partita mortale Cico, Denise
e Digging Bill. Già, perché tra i loro nemici il più temibile è proprio Zagor,
combattuto tra le due personalità che albergano nel suo corpo: quella del
Giustiziere di Darkwood e quella del semidio Damballah!
Se il riferimento letterario della storia precedente era Robert
Ervin Howard, qui lo stile e l’ambientazione richiamano fortemente Edgar Rice Burroughs
(creatore di Tarzan della Scimmie).
Dalle regione desertiche del Sahara si passa alle giungle del
cuore dell’Africa, quelle che nell’immaginario collettivo rappresentano un
luogo inesplorato, misterioso, oscuro e ricco di pericoli. Un luogo dove il
lettore può immaginare di trovarvi tribù di feroci cannibali, animali
preistorici, creature soprannaturali ed inquietanti regni nascosti connotati da
nomi evocativi come, nel nostro caso, Songhay.
Il ritorno di Marie Laveau, preconizzato dagli incubi di Jacques
Lassalle fin da Il tesoro di Jean Lafitte,
non giunge certo inaspettato. La bella Marie, infatti, appartiene a quella
tipologia di personaggi destinati a diventare ricorrenti in una saga e credo che
ben pochi fossero i lettori che non attendessero, fin dalla sua prima
apparizione, una sua nuova apparizione. Mauro Boselli, nel caratterizzarla, non
la descrive come autenticamente malvagia e ciò, a mio parere, rende questo personaggio
molto più accattivante.
La storia è affascinante,
per i personaggi che la animano, per la lussureggiante natura, per i
riferimenti alle tradizioni africane, correlate con la miglior narrativa
fantastica tanto cara a Boselli, che
imbastisce un racconto corale e si rivela abile nel gestire tutte le fasi del
racconto, contraddistinto da due vicende parallele che alla fine convergono nel
comune finale.
Mai come in questa storia il paragone tra Zagor e Tarzan si
rivela appropriato, e vedere lo Spirito con la Scure volteggiare di liana in
liana nel cuore della giungla lanciando il suo caratteristico grido è una gioia
per tutti coloro che hanno amato anche il personaggio di Burroughs.
Inoltre, bisogna dire che l’artificio dell’eroe che diventa
alleato dei suoi nemici è gestito ottimamente da Boselli. Questo Zagor/Damballah
è davvero singolare: soggiogato nella mente come solo Hellingen e gli Akkroniani erano
riusciti in passato, sembra non riconoscere più i vecchi amici ma non ha
comunque perso del tutto la sua vera personalità. Infatti, rimasto nelle
“retrovie” per buona parte della storia, il suo ritorno al centro della vicenda
viene enfatizzato da questa frase: “Sì, Damballah ti appartiene, Grande
Verme, fanne ciò che vuoi! Ma io non sono Damballah... Sono Zagor!”.
Infine una parola sui disegni di Laurenti. Davvero molto buoni, caratterizzati da un tratto vibrante
e particolarissimo, sempre dettagliato e movimentato.
* * *
LA TERRA DELLA
LIBERTÀ
Era il sogno di Liberty Sam e di tutti gli
schiavi neri: una terra senza padroni, una nazione dove poter vivere liberi e
rispettati. Ma per realizzare un sogno bisogna spesso battersi e morire, e
l'impresa appare disperata, se oltre ai colonizzatori inglesi ci si mette anche
la malaria a falcidiare i ranghi degli ex schiavi. Per fortuna, la bizzarria
del caso trasforma a volte gli incidenti del cammino in provvidenziali risorse;
accade così che Zagor e Cico, abbandonati in Africa dal capitano Jean Lafitte,
costretto a sfuggire agli inglesi, abbraccino la causa della gente di Liberty
Sam.
L'unica speranza di combattere l'epidemia è
che Zagor riesca a portare in tempo a Monrovia il chinino necessario al dottor
Leonard, ma la malattia non è il nemico peggiore dei sogni di riscatto degli ex
schiavi. Un insospettabile traditore e nuovi, implacabili avversari faranno di
tutto per ostacolare il passo a Liberty Sam, Zagor e Cico!
Con questa storia si conclude il viaggio in
Africa di Zagor e Cico.
È una vicenda dal ritmo frenetico ma che
concede ampi spazi al lettore per riflettere sul tema del razzismo, cha a volte
non è solo una questione di diverso colore della pelle ma anche di cultura
diversa. Significativo è, infatti, il suicidio finale del traditore, figura
oltre modo tragica ancorché negativa.
Veramente
eccellente il lavoro di ricostruzione storica eseguito da Moreno Burattini, che ci racconta
un’Africa viva e palpitante, ricca di storia, miti, credenze, contraddizioni e superstizioni
attraverso un’avventura emozionante sullo sfondo di avvenimenti realmente
accaduti e documentati.
Assolutamente degne di rilievo le figure del crudele governatore
inglese, del cinico medico peruviano che non esita ad alzare il prezzo del chinino
speculando vigliaccamente su persone la cui vita è attaccata ad un filo sempre
più esile; del sanguinario Re Gezo e delle amazzoni del Dahomey, le famigerate
“guerriere della savana”. Svettante sopra tutti, com’è giusto che sia, troviamo
uno Zagor sempre nel vivo della storia, deciso ed implacabile (come poche altre
volte lo avevamo visto) contro coloro che cercano di impedire il compimento
della missione per cui lui stesso e Liberty Sam non esiterebbero un istante a
dare la vita.
Lo stile di Ferri
appare più pittorico del solito, soprattutto in alcune sequenze marinare o
nella rappresentazione della costa che digrada dal deserto verso il mare e
delle piccole capanne di pescatori nei pressi di Lagos.
Concludo con quella che per molti sarà sicuramente una novità.
Ad un forumista che sul sito internet www.spiritoconlascure.it scriveva
che l’avventura delle guerriere della savana gli era piaciuta ma era a suo
parere troppo breve, così Moreno
Burattini rispondeva nell’aprile 2004:
Il mio progetto originario
prevedeva tre albi, con molto più spazio alle Amazzoni del Dahomey. Addirittura
c’era una storia d’amore fra Rodrigues e una delle donne guerriere.
Non ricordo perché, ma
Boselli mi chiese di chiudere in due albi. Forse non c’era tempo per finire il
terzo albo, vista la serrata continuity che non permetteva di inserire storie
in mezzo per permettere a Ferri di chiudere il tempo il racconto, oppure Ferri
serviva per qualcos’altro, non so.
Ecco il soggetto originale
così come venne approvato.
Tre albi ci stavano tutti.
LA TERRA DELLA LIBERTA’
Soggetto per Zagor di
Moreno Burattini
1. La fuga di Lafitte
Nel porto di Lagos la nave
di Lafitte è stata riparata, è pronta a ripartire. Tuttavia, Lafitte non è uno
stinco di santo: non dimentichiamo che la sua prima apparizione l’ha fatta
uccidendo a sangue freddo, per vendetta, uno dei pirati di Barbe-en-feu che
parteciparono alla congiura contro di lui la notte in cui esplose la “Pride”
originale. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, e così all’insaputa di Zagor
il nostro pirata non ha resistito alla tentazione di riprendere una delle
attività che già furono della sua banda di corsari ai tempi di Barataria e di
Galveston: il contrabbando fra l’Africa e l’America. Perciò ha imbarcato sulla
“Pride” merce da portare negli States di nascosto: potrebbero essere diamanti
rubati in una miniera gestita dagli inglesi (i paesi del Golfo di Guinea sono
fra i principali produttori al mondo di diamanti, lo Zaire lo è in assoluto).
A offrire i diamanti (o
quel che è) a Lafitte è stato un avventuriero portoghese che sarà
coprotagonista della storia. Si chiama Rodriguez Lobo ed è un tipo che vive di
colpi di mano e traffici illeciti, non un vero e proprio criminale (nel senso
che non è un assassino), ma certo non si fa sfuggire le occasioni e ruba,
rivende, compra, intrallazza in una terra che è diventata la sua, là nel Golfo
di Guinea e più su verso il Marocco. I portoghesi, del resto, storicamente
erano presenti con mercanti e avventurieri del genere, nella zona, fin dal
diciassettesimo e diciottesimo secolo. Inizialmente lo vedremo come una figura
negativa, ma piano piano ci apparirà come un tipo divertente, seppur non
raccomandabile.
Zagor e Cico, da poco tornati a Lagos (reduci
dalle precedenti avventure), non sanno quel che Rodriguez Lobo ha tramato con
Lafitte. Lo trovano sulla nave, e Cico fa amicizia con lui. Rodriguez loda la
cucina di una certa taverna del porto e Cico si è convinto a provarla in sua
compagnia. Zagor è sceso dalla “Pride” apposta per andarlo a cercare prima
della partenza: è qui che comincia la nostra storia, il resto lo capiremo a
posteriori. Mentre Zagor, Cico e Rodriguez sono tutti insieme, i soldati
inglesi arrivano nella locanda e vogliono arrestarli per via dei diamanti che
Lobo ha rubato. Rodriguez Lobo tenta la fuga, Zagor protesta la sua innocenza.
Ma varie testimonianze concordano nell’indicare lo Spirito con la Scure e il
fido messicano come membri dell’equipaggio della “Pride”, e i soldati vogliono
portarli nella loro fortezza per chiuderli sottochiave. Così lo Spirito con la
Scure reagisce e lui, il pancione e il portoghese fanno causa comune e
rocambolescamente riescono a liberarsi degli inglesi e a fuggire per le vie di
Lagos.
Nello stesso momento, i
soldati inglesi tentato una irruzione sulla “Pride”, ma i pirati riescono a
gettarli in acqua, a togliere la passerella e a prendere il mare. Il comandante
degli inglesi fa partire una nave da guerra perché insegua i fuggitivi. A bordo
della “Pride”, Digging Bill, Van Sutter, Denise e Jacques si lamentano
vivacemente con Lafitte per il fatto che Zagor e Cico sono rimasti a terra.
Lafitte replica che anche a lui dispiace, ma pazienza: ha gli inglesi alle
calcagna, deve pensare a fuggire, Zagor è in gamba riuscirà a cavarsela.
Così lasciamo Lafitte, non
sapremo mai (in questa storia) che cosa gli è successo, anche se si può pensare
che farà perdere le sue tracce agli inseguitori e tornerà in America, di certo
però per un po’ non si farà rivedere a Lagos. Quel che vediamo è che Zagor,
Cico e Rodriguez vorrebbero cercare rifugio sulla “Pride”, ma arrivati al porto
apprendono che è partita, e vedono partire la nave inseguitrice.
2. Liberty Sam e la
Liberia
Gli inglesi cercano
dappertutto il terzetto di fuggitivi, e li sorprendono nel porto, di fronte
alla banchina dov’era la “Pride”, ormai in alto mare. Sarebbero presto
catturati se in loro aiuto non arrivasse Liberty Sam! Costui riesce, grazie a
gente di Lagos che conosce, a nascondere i fuggitivi su un carro e a farli
uscire dalla città, verso la foresta circostante. Nella fuga, il carro di
Liberty Sam finisce danneggiato e quando i nostri sono in salvo, si rompe un
semiasse, il carro rotola in una scarpata, si sfascia tutto e diventa
inutilizzabile. In ogni caso il pericolo immediato è scampato. Si forniscono le
spiegazioni: Liberty Sam è a Lagos da un paio di giorni perché deve procurarsi
della merce nel porto della capitale nigeriana, da trasportare poi a Monrovia
(per motivi che vedremo fra poco). Là gli è capitato di vedere Zagor fuggire
inseguito dagli inglesi e ha pensato di aiutarlo.
Liberty Sam non è solo, è
con un piccolo gruppo di accompagnatori venuti con lui da Monrovia. Alcuni di
essi sono degli schiavi liberati (c’è Ulysses, che fu tra i protagonisti
dell’avventura nella quale Sam riuscì a impadronirsi di una nave negriera e a
far ritorno in Africa); ma uno di loro è un negro africano, membro della tribù
dei Dan, abitanti dell’entroterra della Liberia e della Sierra Leone, accolto
anch’egli nella comunità dei liberti che ha fondato Monrovia. Costui si chiama
Manko, ha doti di guerriero, conosce bene la giungla e come muoversi nella sua
terra. E’ un africano fiero di essere africano, pare che odi i bianchi (anche
se tollera gli amici di Liberty Sam, naturalmente). Si accennerà alla rivolta
dei Dan contro gli insediamenti dell’American Colonization Society.
A questo punto serve
sapere che fin dal 1815 un imprenditore marittimo di nome Paul Cuffe aveva
finanziato e capitanato un viaggio dagli Stati Uniti fino alla Sierra Leone a
vantaggio di un piccolo gruppo di schiavi liberati, allo scopo di fondare una
colonia nella quale gli afroamericani avrebbero convissuto con gli indigeni
insegnando loro le abilità apprese negli States.
Cuffe morì nel 1817 senza vedere
la realizzazione del suo sogno. Però la sua esperienza servì alla fondazione
della American Colonization Society, nata per gli stessi scopi il 21 dicembre
1816 (con James Monroe fra i fondatori). Nel 1819 la società ottenne un
finanziamento dal congresso e nel gennaio 1820 la prima nave da essa armata per
l’occasione, chiamata Elizabeth, salpò dal porto di New York verso l’Africa
Occidentale, con 88 emigranti a bordo. La nave arrivò prima a Freetown, in
Sierra Leone, e poi sbarcò i passeggeri sull’isola Sherbo, dove avrebbe dovuto
costituirsi il primo insediamento. Ma l’isola era paludosa, morirono di malaria
sia molti dei negri che alcuni dei bianchi che li accompagnavano. Questo
particolare storico ci servirà nello sviluppo della storia e va tenuto presente.
Il governatore britannico
permise che gli immigranti si trasferissero in una zona più salubre. Fu scelta
la zona di Capo Mesurado, sulla costa detta “del pepe”, nell’attuale Liberia.
La zona fu acquistata per trecento dollari da un capotribù locale.
Era il 1822. Lì fu
costruito il primo insediamento, chiamato City of Christ (o Christopolis), dove
sbarcarono altri liberti provenienti dagli Stati Uniti. Nel 1824 la città fu
chiamata Monrovia in onore del presidente Monroe. Nel 1838 il territorio controllato
dagli immigrati attraverso acquisti e trattati con i capi locali si estendeva
da capo Mount a nord sino a Bassa Point a sud; la popolazione andò sempre
aumentando sia per l?arrivo di nuovi immigrati inviati dalla American
Colonization Society sia per gli schiavi sottratti al traffico di carne umana.
La Liberia ebbe un governatore bianco fino al 1841, quando fu nominato un
afroamericano di nome Joseph Jenkins Roberts. L’indipendenza è datata 7
settembre 1846. Ma queste ultime due date sono posteriori all’avventura con
Zagor. Ciò che ci preme dire è che esistendo Monrovia e la colonia organizzata
dalla American Colonization Society, Liberty Sam e i suoi amici fuggiti dalle
piantagioni americane (come si era visto nell’albo La nave negriera) ci si erano diretti una volta sbarcati in Africa.
E avevano cominciato a viverci, collaborando al suo sviluppo, anche se Liberty
pare non essere troppo soddisfatto di come si sta evolvendo la cosa.
I suoi dubbi, che emergono
qua e là, avranno un senso alla fine e soprattutto ci servono per giustificare
il sostanziale fallimento dell’esperimento Liberia, dove la minoranza nera di
origine americana ha sempre scimmiottato l’esempio della cultura degli States e
ha trattato come paria la popolazione indigena, estromessa dai luoghi del
potere e della cultura. contraddittorio. Il colonialismo alla rovescia,
rappresentato dagli afroamericani emigrati in Liberia nell'Ottocento, non è
dimostrato, in ultima analisi, tanto diverso da quello più classico operato dai
bianchi. L'originaria élite allora formatasi, infatti, ha sempre continuato a
esercitare un ruolo dirigente e quando al suo interno, in tempi recenti, le
divisioni si sono fatte incomponibili, le varie componenti non hanno esitato a
sfruttare nel modo più cinico i contrasti dell'arcaismo tribale piegandoli al
proprio interesse e precipitando il Paese nel caos. La storia della Liberia si
è sempre dimostrata segnata, sin dalle origini, dalla presenza degli Stati
Uniti. Questi vollero infatti la nascita stessa dello Stato fornendo, con un
gruppo di ex schiavi afroamericani, una classe dirigente del tutto estranea a
un Paese che, pur assai povero, era omogeneamente inserito in un'arcaica
struttura agraria a base tribale; più tardi si assicurarono, mediante colossali
concessioni di sfruttamento agricolo e minerario, il completo potere economico
- e quindi politico - su un Paese che, malgrado il nome, è uno dei più tipici
prodotti del colonialismo.
3. Il morbo infuria
Ma veniamo al perché
Liberty Sam è a Lagos, motivo che fungerà anche da motore per l’avventura. I
liberti che giungono dagli States dopo generazioni trascorse in America non
sono più “immunizzati” dalle malattie endemiche dell’Africa e si ammalano di
malaria, tifo, difterite. In particolare nelle ultime settimane si è sviluppata
una epidemia di (diciamo) malaria. Ma non sono previsti arrivo di chinino che
fra tre mesi, e la gente muore adesso. Ad accudire i malati c’è, fra gli altri,
Rebecca, la moglie di Liberty Sam (la conosciamo già dalla storia precedete),
che si prodiga come una crocerossina. Sam la lascia per andare a cercare i
medicinali che servono a Monrovia - che non è la città di adesso, ma solo un
grosso villaggio da poco fondato (esiste da solo una quindicina di anni). Una
epidemia del genere è in grado di stroncare la città sul nascere,
compromettendo lo stesso progetto dell’American Colonization Society.
Il porto più importante in
cui stiano per arrivare navi con i medicinali è appunto Lagos (ci sarebbero
porti più vicini, ma solo a Lagos ci sono i medicinali che servono), e Liberty
Sam si è subito messo in viaggio per procurarsi le medicine e fare rapido
ritorno a Monrovia. Il viaggio è stato fatto via mare, costeggiando con una
barca a vela di una decina di metri (si tratta di quasi mille chilometri di
costa, piccola cosa rispetto alle dimensioni del continente africano, ma certo
una distanza ragguardevole se dovesse essere affrontata via terra).
Adesso deve riportare
indietro le casse che ha con sé. Anzi, ancora non le ha: gliele consegnerà tra
poco un certo ufficiale medico di Lagos, con cui ha già preso accordi. Il fatto
è che non esiste una vera e propria autorità statale in questi posti a metà fra
i protettorati e le colonie, con basi di mercanti sulla costa e tribù selvagge
nell’entroterra. Così le merci vengono distribuite con criteri discutibili:
l’ufficiale ha incamerato per conto proprio ciò che serve a Liberty e vuole
cederlo per intascarne personalmente i proventi. Insomma, la corruzione regna
sovrana.
Rodriguez Lobo dovrebbe
essere lasciato andare a impiccarsi altrove, ma il portoghese non vuole
andarsene, sa che lo cercano per via del furto di diamanti, vuole sfruttare
ancora la copertura del piccolo gruppo di Liberty Sam, per viaggiare con loro
verso nord, lasciando la regione dove per lui le cose si sono messe male. Pensa
di arrivare in Liberia con i nostri e poi proseguire verso il Senegal, la
Mauritania o addirittura il Marocco. A Casablanca ha degli amici con cui fare
certi suoi intrallazzi. Insomma, intende cambiare decisamente aria per un po’.
Magari è rimasto un po’ claudicante e da solo non andrebbe lontano. Dice a
Zagor e a Liberty Sam che se lo costringessero ad andarsene e venisse
catturato, lui sarebbe costretto a dire dove sono Zagor e Cico, procurando così
guai a Liberty Sam che non ha certo tempo da perdere. I nostri accettano di
tenerlo con loro, anche perché lui promette di poter sostituire il carro di
Liberty Sam, che si è rotto nella fuga dalla città, con un veicolo che ha a sua
disposizione nei paraggi.
Perché serve un carro? Il
fatto è che la barca a vela con lui Liberty e i suoi sono giunti a Lagos non è
più utilizzabile visto che le autorità inglesi l’hanno identificata e la
piantonano nel porto. La soluzione è lasciare Lagos via terra, superare
aggirandoli i posti di blocco messi sulle piste della costa, e ritrovare la
costa a Lomè, attuale Togo, dove Rodriguez Lobo giura avere amici in grado di
mettere a sua disposizione un’altra barca. Nottetempo Rodriguez Lobo procura il
carro: va a far visita a certi suoi conoscenti che credeva amici, e che sono
quelli che lo hanno tradito vendendolo agli inglesi, e tranquillamente - dopo
averli massaggiati ben bene - prende il loro carro affermando che lo possono
considerare pagato dai soldi che essi hanno incassato dai soldati. I nostri
(mimetizzati nel gruppo di Liberty Sam) vanno dall’ufficiale medico che ha dato
appuntamento loro all’alba in un deposito medicinali in periferia.
Ma qui, l’ufficiale,
spalleggiato da soldati corrotti, intende approfittare della sua posizione per
chiedere il doppio del prezzo pattuito. Sam non ha i soldi necessari.
L’ufficiale si dice sicuro che potrà procurarseli in poco tempo. Invece Sam non
ha tempo. Così, Zagor dà il segnale dell’attacco: l’ufficiale e i soldati
vengono affrontati e sconfitti, le casse di chinino trafugate e messe sul
carro. L’ufficiale muore, ucciso in combattimento. I nostri fuggono con il
chinino (o il medicinale che stabiliremo essere - si accettano consigli).
4. Fuga nella giungla
Adesso, in qualche modo,
ci serve far sapere a Liberty Sam che anche Rebecca, sua moglie (che noi
abbiamo continuato a vedere di tanto in tanto intenta a occuparsi degli
infermi), si è ammalata. Potrebbe essere che Sam lo “sente” in sogno. In fondo
è in Africa, terra di magia, sta recuperando le sue radici africane, potrebbe
entrare in contatto telepatico. Oppure lo avvisa Rodriguez che sa fare le
carte. Quel che importa, è che Sam sappia o “senta” che anche Rebecca è malata.
Per cui la corsa contro il tempo per portare a Monrovia i medicinali è anche per
salvare lei.
In realtà la lotta contro
il tempo non deve servire solo a salvare Rebecca, e gli altri ammalati. Il
punto è questo: se il chinino non arriva, se si dimostra che l’epidemia non si
può fermare, se si verifica che per la seconda volta la giovane colonia non
regge all’impatto ambientale, non ci sarà una terza prova d’appello. Come
l’insediamento sull’isola di Sherbo era stato abbandonato, sarebbe stata
abbandonata anche la recentissima Monrovia, la cui popolazione era ancora
troppo esigua per poter reggere all’impatto di una epidemia. Insomma, c’era il
rischio che la Liberia morisse ancora prima di nascere, insieme ai suoi primi
abitanti, che il sogno dell’American Colonization Society venisse lasciato
perdere, come si era detto in precedenza.
I fuggitivi, come
sappiamo, hanno deciso di non seguire la costa: la pista costiera è presidiata
dagli inglesi che danno loro la caccia. Bisogna inoltrarsi nell’interno,
attraversare il Dahomey (attuale Benin) e scendere sul mare all’altezza di
Lomè, per riprendere il viaggio in barca.
Però cominciano gli
imprevisti: sembra che la piccola carovana guidata da Liberty Sam debba essere
fermata a tutti i costi, non solo dai soldati britannici decisi ad arrestare
gli assassini dell’ufficiale medico e i ladri di diamanti, ma anche dalla furia
incomprensibile di una tribù indigena che non vuole far passare Zagor e soci
dal loro territorio. Quel che succede possiamo stabilirlo in seguito, saranno
avventure a ritmo serrato, piuttosto drammatiche; però quel che ci interessa
adesso è che: 1) il viaggio sia reso difficile da imprevisti in grado di tenere
alto il tasso di adrenalina della storia, senza momenti di stanca; 2) che
dietro a ciò che succede si possa scorgere l’ombra di un sabotatore o di un
manovratore nell’ombra, qualcuno intenzionato a non far arrivare il medicinale
a Monrovia.
La tribù del Dahomey che
mette i bastoni fra le ruote a Zagor e compagni potrebbe essere una qualunque
delle tante delle foreste del Golfo di Guinea (gente anche cattivella, vista
che facevano sacrifici umani centinaia di vittime per volta), ma (secondo me)
si potrebbero inserire le famose “donne guerriere” del Dahomey.
E’ necessario leggere le
notizie che seguono, anche se poi va deciso se queste donne vanno utilizzate o
no, se possono essere o no uccise in battaglia dai nostri eroi: sarebbe
comunque interessante davvero vederle su Zagor, offrendo ai lettori un qualcosa
di mai visto prima, oltre che di documentariamente fondato. Se invece le
amazzoni dei Dahomey non si possono usare, restano i loro colleghi maschi,
visto che il re del luogo si serviva di tutti e due.
5. Le donne guerriere
Ecco qualche notizia
storica sulle donne guerriere del Dahomey, davvero esistite. Il primo europeo
che segnalò la loro esistenza fu il capitano William Snelgrave. Nel 1727 la sua
nave approdò sulla costa d’Oro, a Jaqueen, forse l’odierno Benin. L’attività di
commerciante di schiavi lo portò a estendere i suoi contatti ai sovrani
africani dell’interno. Cosicché, ricevuto un invito dal re del Dahomey, uno dei
regni indigeni più potenti della regione, s’addentrò nella disteso su un’amaca
portata a spalle da sei negri. La capitale del Dahomey si trovava a 65 km a Nord della costa.
Mentre si avvicinavano alla residenza reale per incontrarsi per la prima volta
col monarca Dahomey, videro due alte pile di teste umane: i trofei putrescenti
di quattromila nemici sacrificati al Dio del Dahomey. Fu una scena
raccapricciante, la prima di una lunga serie di testimonianze sugli oltraggiosi
sacrifici umani praticati nell’Africa Occidentale. Comprensibilmente nervosi,
gli Europei furono poi condotti dal monarca, l’artefice di tale massacro
rituale. Snelgrave ne descrive la scena. Il re sedeva su un trono dorato,
circondato da alcun e donne, di cui tre reggevano grandi ombrelli sulla sua
testa. Altre quattro gli stavano dietro con in spalla dei moschetti a pietra
focaia. Tutte, dalla vita in su, erano nude, avevano cerchi d'oro e collane di
perle al collo e tra i capelli: erano l’élite della guardia reale, composta da
sole donne. Nel 1730 il capitano Snelgrave ritornò in Costa d'Oro e raccolse
nuove informazioni su queste guerriere.
Dalla seconda metà
dell’800 in poi 1’Inghilterra non prese più parte al commercio degli schiavi.
Gli Inglesi che si erano recati in Costa d’Oro avevano descritto con toni
critici gli orrori delle guerre tribali, nonché la barbara tradizione di
sacrificare gli uomini, e queste testimonianze spinsero l’Impero britannico ad
agire sia contro gli schiavisti sia contro i regimi africani. Nel movimento antischiavista
vi fu anche Frederick Forbes il quale, per avere una chiara immagine della
caccia allo schiavo che gli stessi sovrani africani conducevano, intraprese due
missioni alla corte del Dahomey. “Le Amazzoni - egli scrive - non si sposano e,
come esse affermano, hanno cambiato sesso; "siamo uomini" dicono,
"non donne". Vestono tutte allo stesso modo, mangiano il medesimo
cibo e tra i maschi e femmine v’è competizione: se un maschio è capace di fare
una cosa, le Amazzoni si sforzano di farla meglio. Curano molto le loro armi,
tengono le canne dei fucili sempre ben pulite, e se non sono in servizio le
lasciano nelle custodie. Nel palazzo non svolgono nessun compito particolare,
se non quando il re compare in pubblico: allora una guardia di Amazzoni protegge
la persona del sovrano; nelle parate, invece, questo compito è affidato agli
uomini. Fuori del palazzo c’è, comunque, sempre a disposizione un forte
distaccamento di uomini. Le Amazzoni vivono in baracche poste all'interno delle
mura del palazzo. In ogni gesto (sia nei maschi che nelle femmine) v’è sempre
qualcosa che ricorda le decapitazioni. Nelle danze (ed è un dovere per il
soldato e l’amazzone essere un abile danzatore), con gli occhi sbarrati, mimano
con la mano destra il movimento della sega mentre taglia il collo, poi usano
entrambe le mani e con una torsione finale imitano la conclusione dell’atto di
sangue”. Durante la sua seconda visita nel Dahomey, nel 1850, Forbes assistette
a una parata del corpo delle Amazzoni. Nel mercato di Abomey, la capitale del
Dahomey, sotto un baldacchino fatto di ombrelli, il sovrano sedeva su uno
scanno decorato coi teschi del nemico. Forbes stima a 2.400 le guerriere che
sfilarono davanti al sovrano e il suo resoconto ci fa capire che le guerriere
amazzoni non erano solo una stravagante guardia del corpo, ma una parte
integrante dell'esercito, un corpo speciale che amava combattere.
Quattro anni prima anche a
John Duncan, che era stato nelle Guardie del Corpo, era stato concesso l’onore
d'assistere alla destrezza militare delle Amazzoni del Dahomey. “Usano il lungo
moschetto danese con la stessa familiarità che un nostro granatiere il suo
fucile, - e conclude - ma naturalmente non con la stessa velocità, in quanto
non si esercitano affatto, ragion per cui, su ordine, attaccano come una muta
di cani da caccia, con estrema rapidità. Naturalmente queste donne non
potrebbero far nulla contro un esercito più disciplinato e ferma restando una
loro parità numerica. In ogni caso il loro aspetto è molto più marziale in
confronto a quello degli uomini, e se dovessi intraprendere una campagna,
preferirei queste donne ai soldati maschi dello stesso paese”.
Secondo Skertchly
l’esercito contava circa quattromila guerriere, quantunque le più valorose
fossero già morte nel 1864
in una battaglia contro una tribù rivale. Skertchly
identificò quattro tipi di guerriere all’interno delle tre divisioni e quelle
della brigata del re, che rappresentavano l’élite. Le Gbeto, o cacciatrici di
elefanti, erano considerate le più coraggiose. Avevano condotto pericolose
spedizioni di caccia e molte di loro portavano ancora gli orrendi segni di
lotta all'ultimo sangue con elefanti feriti. Le Nyekplehhentoh, o donne del
rasoio, erano note per il loro totale disprezzo dei capi nemici. La loro spada
aveva una lama lunga circa mezzo metro che, incernierata sul manico, poteva
richiudersi come un rasoio. L’arma era usata per le decapitazioni. Le
Gulonentoh, o moschettieri, rappresentavano la maggioranza delle guerriere.
Secondo l’esploratore Richard Burton, che le vide negli anni successivi al
1860, queste donne erano armate con vecchi moschetti Tower ed avevano un
pessimo munizionamento, tanto che usavano al posto della stoppa la fibra di
bambù. La brigata del re comprendeva anche un quinto battaglione di guerriere,
le Gohento, o arcieri, formato prevalentemente da giovani armate di arco,
faretra e di leggere frecce di bambù avvelenate, nonché di un piccolo coltello
che portavano legato al polso. Utilizzate per lo più come vedette o portantine,
erano impiegate raramente nei combattimenti.
Si dice che le Amazzoni
ebbero il loro periodo più prestigioso sotto Gezo, re del Dahomey intorno al
1850. Proprio in epoca zagoriana, dunque (o quasi). Re Gezo le elevò a uno
status uguale, se non addirittura superiore a quello dei suoi guerrieri maschi,
e fece inoltre promulgare un decreto in cui ordinava a ogni suo suddito di
presentargli le proprie figlie. Da queste sceglieva le giovani più promettenti
per prepararle a diventare ufficiali mentre le altre diventavano soldati
semplici. Da allora la coscrizione si effettuò ogni tre anni allo stesso modo.
La maggior parte delle Amazzoni aveva l’obbligo del nubilato; se trasgredivano
questo codice venivano giustiziate insieme ai loro amanti. Su questo costume un
vecchio aneddoto del Dahomey dice che erano più i soldati morti per essersi
introdotti nei quartieri delle Amazzoni di quelli uccisi in battaglia. Alcune
Amazzoni, comunque, diventavano le concubine del re ed erano chiamate mogli
Leopardo.
Richard Burton era
convinto che questa imposizione a non sposarsi contribuisse a rendere le
Amazzoni ancora più feroci. “Sono selvagge come un gorilla ferito, e in
crudeltà superano di molto i loro confratelli”. Skertchly pensò addirittura che
i britannici avrebbero potuto adattare questo costume militare alle loro
esigenze interne. Per tutto il XIX secolo le Amazzoni del Dahomey furono
utilizzate soprattutto nelle guerre schiaviste che ogni anno venivano
intraprese contro le popolazioni vicine. Il re del Dahomey comprava gli schiavi
dai suoi guerrieri per poi rivenderli sulla costa agli Europei.
6. Tradimenti
Appunto questa attività del re del Dahomey
potrebbe essere all’origine dell’attacco delle donne guerriere (o dei loro
colleghi uomini) alla carovana di Liberty Sam: il re del luogo ha tutto
l’interesse che una colonia di schiavi liberati come la Liberia non prenda
piede. Ma chi lo ha informato del fatto che i nostri trasportano il chinino e
che bloccandoli si può mettere nei guai Monrovia? Vari indizi fanno sospettare
che ci sia un mistero sotto. Se le donne guerriere si potranno sfruttare, come
spero, ecco anche un altro elemento divertente: si è detto che le Amazzoni
avevano l’obbligo del nubilato; se trasgredivano questo codice venivano
giustiziate insieme ai loro amanti. Rodriguez viene fatto prigioniero fin dal
primo scontro e si innamora di una di loro: quando Zagor e compagni riescono a
liberarlo si trovano nella necessità di dover salvare anche la donna, che
altrimenti, avendo ceduto alle lusinghe del portoghese, rischia la vita.
Il fatto che Rodriguez sia
stato fatto prigioniero e non ucciso subito, ma tenuto in vita fino alla
liberazione, fa sospettare Liberty Sam che ci sia dietro lui alle disavventure
del gruppo. E’ stato davvero fatto prigioniero o è un trucco escogitato per non
essere nel gruppo al momento dell’assalto? Di certo c’è che conosce il re del
Dahomey cui fa intrallazzi con i suoi diamanti. Anche Rodriguez ha interesse
che la Liberia non nasca mai come stato, visto che è un trafficante di
diamanti, visto che la costa del pepe era battuta dai portoghesi dediti appunto
ai loschi traffici di tutti i tipi, traffici ostacolati dalla presenza di
insediamenti americani che si propongono come forieri di ordine costituito.
Ma non è questa la
spiegazione. Il vero colpevole di rivela essere Manko, il guerriero Dan. Lui,
inviato in perlustrazione durante le prime fasi del viaggio, ha trovato il modo
di scatenare i guerrieri dahomey contro Liberty Sam. Lui vive a Monrovia, sì,
ma si è reso conto che i nuovi arrivati, seppure uomini di colore, porteranno
nella sua terra gli usi e i costumi dei bianchi, la società americana. Gli
indigeni saranno sempre dei paria. Saranno “nobili” i neri con antenati
americani, ma quelli del luogo resteranno dei diseredati, perderanno le vecchie
tradizioni e non ci guadagneranno da quelle nuove. E’ un movente molto
“filosofico”, ma Manko è un idealista. Se il chinino non arriverà, forse
Monrovia non attecchirà: lui ci vuole provare (è un’idea che gli è venuta nel
momento in cui si è predisposta la spedizione verso Lagos e per questo si è
offerto volontario).
Da ultimo, quando viene
scoperto, arrivano i ribelli Dan: sono stati loro a infiltrare Manko perché non
arrivassero i medicinali, e c’è un accenno di combattimento subito sedato: in
qualche modo anche i ribelli accettano le ragioni di Liberty Sam a cercare di
costruire una civiltà migliore, fra fratelli neri. A Manko, Liberty Sam dice di
capire le sue ragioni: egli stesso ha idee simili, anche se i suoi sono solo
vaghi timori e l?eroe nero non approva le azioni di Manko.
Così il chinino arriva a
Monrovia, Rebecca viene salvata. Incredibile ma vero, a Monrovia arriva la nave
di Lafitte, tornato indietro a cercare Zagor e Cico per le pressioni
dell’equipaggio. Sarà la “Pride” che riporterà Zagor e Cico di là dall’oceano.
Intanto i nostri staranno un po’ con Liberty, che confessa di non sapere se
resterà a lungo lì a Monrovia o cercherà altrove la vera libertà. In fondo c’è
un continente intero alle sue spalle.
Sebbene non al livello della precedente LRDCM è comunque una storia più che buona ricca di mistero, fascino e una certa tenebrosità. Forse tre albi pieni avrebbero giovato di più, però comunque la giungla è viva e risulta piuttosto affascinante ed inquietante il racconto dell' anziano capo che parla di quando i demoni oscuri erano padroni!
RispondiElimina" Inoltre, bisogna dire che l’artificio dell’eroe che diventa alleato dei suoi nemici è gestito ottimamente da Boselli. Questo Zagor/Damballah è davvero singolare: soggiogato nella mente come solo Hellingen e gli Akkroniani erano riusciti in passato, sembra non riconoscere più i vecchi amici ma non ha comunque perso del tutto la sua vera personalità. Infatti, rimasto nelle “retrovie” per buona parte della storia, il suo ritorno al centro della vicenda viene enfatizzato da questa frase: “Sì, Damballah ti appartiene, Grande Verme, fanne ciò che vuoi! Ma io non sono Damballah... Sono Zagor!”.
Infine una parola sui disegni di Laurenti. Davvero molto buoni, caratterizzati da un tratto vibrante e particolarissimo, sempre dettagliato e movimentato."
Quoto! Uno Zagor nella seconda parte insolito, ma che non perde del tutto la sua personalità! E l' urlo liberatore e il combattimento con il grande verme sono goduria pura per il lettore! ^^
Molto buona anche "La terra della libertà". Piuttosto avvincente e con personaggi ben caratterizzati dove, come scritto sopra, oltre all' azione c' è un bello spazio anche per la descrizione del luogo e della varie comunità che lo abitano. Dopo il deserto e la giungla ecco la savana, anch ' essa viva. Burattini chiude il suo trittico con sulla libertà dopo LS e FPLL.
Sulla lunghezza in effetti mi aspettavo che la storia si svolgesse in tre albi in modo da pareggiare la precedente trasferta e rimasi un po deluso nel vedere che si concludeva con LGDS. Molto interessante scoprire dopo 14 anni che Burattini l' aveva pensata proprio in tre albi!
Grazie per aver messo la stesura originale! ^^
Completamente d accordo con quanto scritto da Baltorr e Francesco. Peccato che la trsferta africana duri cosi poco. Sarebbe stato bello vedere Zagor in kenia o a zanzibar magari combattere con o contro i mao mao...vi chiedo una cortesia: ho letto d in fiato il mensile in edicola. Mi sapete dire dove il nostro ha gia incontrato kaufman? Proprio non me lo ricordo...grazie a tutti. Giovanni21
RispondiEliminaNon mi risulta che Kaufman e Zagor si siano incontrati prima d'ora... o mi sbaglio?
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