Il
centoottantaduesimo numero, che troverete in edicola domani, contiene la conclusione dell’avventura di Zagor con il duca di Greenshire, nonché la prima parte della storia “L’uomo venuto dall’oriente”.
L’UOMO VENUTO DALL’ORIENTE
Il samurai che non segue il suo signore
nella morte diventa un ronin: un guerriero senza padrone, la più triste delle
condizioni per chi vive secondo il codice d’onore del Bushido. Eppure, il
giovane Takeda non si unisce ai samurai del principe Minamoto che fanno
seppuku, il sacrificio rituale dei giapponesi. Il più anziano dei suoi compagni
gli affida infatti una missione da compiere: trovare e uccidere l’uomo che ha
sconfitto il loro signore, per vendicarne la morte. E per Takeda il bersaglio
da colpire, diventato l’unico scopo della sua vita, ha un nome preciso: Zagor!
Il giovane samurai lascia quindi il Giappone alla volta della lontana America.
Nel frattempo lo Spirito con la Scure è
tornato alla sua capanna nella palude, dove trova ad attenderlo una missiva del
suo vecchio amico ing. Robson, che chiede aiuto per risolvere il mistero di
alcuni sabotaggi alla nuova linea ferroviaria che sta costruendo. Zagor e Cico
si rimettono subito in viaggio.
Tempo prima Takeda si era arruolato fra i lavoranti alla
ferrovia di Robson dopo essersi innamorato
della bellacinese Jeng, per cui quando Zagor giunge in soccorso dell’ingegnere
trova il samurai già lì ad attenderlo. Ma non è soltanto da Takeda che Zagor
deve guardarsi. Mentre il giapponese si prepara ad affrontarlo per compiere la
sua vendetta, infatti, altri misteriosi nemici tramano nell’ombra e gli
attentati si ripetono mettendo a rischio la vita degli operai cinesi.
Quando lo Spirito con la Scure incontra
finalmente Robson questi si dimostra stupito che Zagor e Cico siano venuti su
sua richiesta perché lui non ha mai inviato nessuna lettera (in realtà spedita
da Takeda); in ogni caso, l’ingegnere è felice di avere al suo fianco Zagor che
potrà aiutarlo a togliere le castagne dal fuoco...
Zagor scopre con uno stratagemma che i
responsabili dei sabotaggi sono alcuni guardiani del cantiere, che hanno nel
frattempo rapito la bella Jeng. Il giustiziere di Darkwood interviene per
liberarla ma la ragazza viene colpita da un proiettile vagante. Interviene
anche Takeda che, però, viene fatto prigioniero. Dopo aver posto in salvo Jeng,
Zagor salva anche la vita di Takeda, uccidendo i vigilantes ad eccezione di uno
che dovrà rivelare chi sono i mandanti dei sabotaggi alla ferrovia.
A questo punto Takeda, sebbene turbato perché deve uccidere l’uomo che gli ha salvato la
vita, prende in pugno la sua takana ed inizia l’assalto contro Zagor.
Fortunatamente Jeng riesce a far desistere l’amato dal suo intento, almeno
temporaneamente.
Il sorvegliante sopravvissuto vuota il
sacco: i mandanti degli attentati sono l’ing. Webster e il suo assistente
Dwight, responsabili dei lavori di costruzione del tronco ferroviario al quale
dovrebbe ricongiungersi quello di Robson. Il loro fine era quello di screditare
quest’ultimo per aggiudicarsi anche il suo lavoro.
Nello scontro finale, Zagor uccide Dwight e
mentre sta per essere colpito a morte da Webster viene a sua volta salvato da
Takeda, che salda così il suo debito d’onore.
Il bushido tuttavia non permette a Takeda di recedere dalla missione che gli è
stata assegnata, però ora è prioritario per lui prendersi cura di Jeng e del
loro figlio che porta in grembo; questo compito mette in secondo piano la
missione precedente. Takeda si allontana ringraziando Zagor per avergli mostrato un’altra strada.
L’avventura si
riallaccia ad una storia di Bonelli/Nolitta
(Arrivano i samurai) apparsa sui nn.
116, 117 e 118 della serie regolare.
Moreno Burattini parte da questa vecchia
vicenda per realizzare una storia che parla sì di vendetta ma anche di
incontro/scontro tra diverse civiltà (l’americana e la giapponese).
Fin dalle
prime pagine lo sceneggiatore alterna la narrazione “in tempo reale” con brani
tratti da testi storici giapponesi, descrivendo così un samurai che, giunto in
America, conosce una realtà ben diversa da quella a cui è abituato e di
conseguenza arriva al termine della vicenda, indeciso fra il cuore e la spada,
fra sentimenti d’amore e riconoscenza e la sua filosofia guerriera, a mutare lo
scopo della sua vita.
A conferma del
cambiamento di prospettiva, nella tavola conclusiva Takeda si accorge che
esiste un orizzonte più vasto di quello entro i limiti del quale aveva
improntato la sua esistenza, consapevole delle sue responsabilità di futuro
padre e dell’ammirazione che prova per lo Spirito con la Scure, non più un
assassino (come lo credeva) ma un uomo d’onore, giusto e generoso.
In tal modo Burattini caratterizza Takeda
diversamente da Minamoto: laddove questi era il samurai per eccellenza, crudele
e spietato, che non può essere scalfito da nessuno scrupolo, Takeda è anch’egli
fedele al suo codice ma un uomo “vero”, con dubbi e fragilità, come tutti noi.
Queste sfumature ne fanno un personaggio molto dinamico,
che alla fine della storia abbandona la sua missione ma non definitivamente,
tanto che il suo ritorno è già previsto in una
futura avventura sceneggiata da Jacopo
Rauch e sempre disegnata da Massimo
Pesce.
E a proposito di quest’ultimo, v’è da osservare che i suoi disegni
chiari e dinamici rendono ottimamente le numerose scene d’azione e si
rivelano appropriati al tipo di avventura, confermando inoltre la sua
predilezione per le figure femminili. Peccato per alcune vignette (soprattutto
in campo lungo) che appaiono vergate frettolosamente...
Come in altre occasioni, chiudo riportandovi alcuni interventi
di Moreno Burattini su questa
storia, risalenti al 2005/2006 e postati sul Forum www.spiritoconlascure.it.
In merito al fatto che il samurai approda a New Orleans anziché
in California (la via più breve per venire in America dal Giappone:
“Bisogna tenere conto del
fatto che ai tempi di Zagor non era possibile attraversare il continente
nordamericano da ovest verso est (e nemmeno da est verso ovest). Ovvero, era
possibile per gente eroica e ardimentosa (la spedizione di Lewis & Clark èdel
1804, e anche Zagor ne ha seguito le tracce in una storia di Toninelli), ma non
esistevano piste, strade, ferrovie. Al di là del Mississippi c’era il
territorio indiano, inesplorato e sconfinato. Non si sapeva dove fossero i
valichi per attraversare le Montagne Rocciose, dove fossero i pozzi nei
deserti. C’erano gli "ostili" (così venivano chiamati i pellerossa in
certe cronache dell’epoca) che uccidevano i viandanti. Per portare le carovane
in California o comunque sulla costa del Pacifico si aprirono delle piste, a
prezzo di tanti morti e tante sofferenze, solo nella seconda metà del secolo.
Dunque, nessuna strada fra la California e la Costa Est, non per gente
disarmata con donne e bambini al seguito. Gli immigrati che giungevano dalla
Cina di solito sbarcavano in Cile (le rotte attraverso il Pacifico prevedevano
spesso scali cileni). Poi si poteva circumnavigare il Sud America oppure
risalire fino al Messico, e da Veracruz prendere una nave per New Orleans.
Appunto”.
In merito all’ispirazione del film di Terence Young “Sole rosso”
(1972) con Toshiro Mifune, Charles Bronson, Alain Delon e Ursula Andress:
“Sole Rosso è stato uno
dei primi film che io ho visto al cinema, mi ci portarono i miei genitori
quando io avevo dieci anni. Credo anche che le mie turbe erotiche (si sa che
sono un cultore dell’erotismo) derivino delle scene di nudo con Ursula Andress
(che fecero pentire i miei genitori dall’avermi portato al cinema). La
copertina di Il cuore e la spada è
chiaramente ispirata alla scena finale di "Sole Rosso", quando la
katana dell’imperatore viene fatta ritrovare lungo i binari della ferrovia.
Devo anche segnalare che il personaggio interpretato da Alain Delon in
"Sole Rosso" ha ispirato uno dei cattivi in una mia vecchia storia, Nodo Scorsoio. Questo a dimostrazione
del debito che ho verso quel film, assolutamente consigliato a tutti”.
In merito al fatto che Zagor viene quasi battuto da Takeda ed
alle motivazioni con cui quest’ultimo risolve il suo conflitto interiore:
“Circa lo Zagor in
difficoltà, faccio notare alcune cose. Un eroe è tanto più grande e tanto più
si è partecipi delle sue vicende quanto più soffre. Rocky Balboa, per fare un
esempio, non è Ivan Drago. È uno che ne busca tante, che viene gonfiato di
botte, che poi reagisce e solo soffrendo arriva alla vittoria. Dunque se Zagor
fosse uno spaccamontagne che non soffre mai, le sue storie non sarebbero
divertenti. Invece anche Nolitta metteva Zagor in difficoltà, un esempio su
tutti nei combattimenti contro Supermike. Il problema è fare in modo che quando
Zagor è in difficoltà non lo sia per dabbenaggine, non sembri stupido, non si
comporti da idiota. Ma se è in difficoltà perché il suo avversario è fortissimo,
la cosa dà sapore alla storia. Nel caso di Takeda abbiamo visto tutti la sua
abilità straordinaria di combattente. Tutti gli scontri del samurai con gli
avversari servivano a fare in modo che il lettore sapesse quant’era letale, e
si chiedesse: che accadrà quando incontrerà Zagor? La scena che più mi è
piaciuto scrivere è quando Zagor, ignaro, riconsegna la katana a Takeda dopo
averlo salvato. Qualcuno si è chiesto perché Zagor non noti il costume da
samurai. A parte il fatto che Takeda ha un costume "agile" e non del
tutto uguale a quelli visti da Zagor ai tempi di Minamoto, Zagor sa che Takeda
è un "buono" perché la ragazza Jeng (che non è a conoscenza dei
propositi del samurai) gli ha chiesto di salvarlo e gli ha spiegato che se lo
merita. Zagor non è tenuto a prendere per oro colato tutto quello che dice una
ragazza, ma il contesto depone a favore di Takeda. Come immaginare che l’orientale,
a cui lo Spirito con la Scure salva la vita, voglia ucciderlo appena salvato?
Il fatto che sia armato e abbigliato come un guerriero orientale (peraltro là
dove ci sono centinaia di orientali, gli operai della ferrovia) significa
soltanto che è un guerriero orientale, e non è che il nostro eroe debba temere
tutti i guerrieri orientali, quasi per un pregiudizio razzista, solo perché
sono guerrieri orientali. Se Zagor avesse salvato un guerriero pellerossa gli
avrebbe restituito la sua lancia, se non ci fosse niente che facesse pensare a
una minaccia. Idem con Takeda. Quando però Takeda lo attacca, Zagor non viene
quasi sconfitto. Si difende. Non ha un’arma adatta, solo il fucile che non
vuole usare perché spera di far riflettere il suo avversario, non intende
uccidere, non vorrebbe neppure combattere se potesse, non ha nulla contro il
samurai, anzi ha promesso a Jeng di salvarlo. Dunque cerca di parlare al suo
avversario. Ecco perché questi sembra prevalere. Quando Jeng interviene, non
salva la vita a Zagor: interrompe semplicemente il combattimento. Se Jeng non fosse
intervenuta, Takeda avrebbe abbassato la spada ma Zagor avrebbe potuto
rotolarsi di fianco e schivare di nuovo, non lo sappiamo, ma possiamo
ipotizzare che il nostro eroe se la sarebbe cavata comunque. Dunque Zagor in
difficoltà sì davanti a un grande avversario, ma non "quasi"
sconfitto”.
“Una volta Isaac Asimov
andò in incognito a una conferenza dove un critico letterario commentava i suoi
racconti, e sentì dire che una certa cosa da lui scritta alludeva a certi
significati, o faceva intuire certe verità. Al che lui si alzò divertito e
disse: "Io sono l’autore e posso assicurare che non pensavo a nulla del
genere quando ho scritto quella cosa". Il conferenziere non si scompose e
disse: "Perché, scusi, per il solo fatto di essere l’autore si illude forse
di poter capire tutti i significati di quello che scrive?".
Un autore scrive spinto da
mille cose che ha detto, a volte solo per sbarcare il lunario, poi l’opera è
affidata ai lettori e ognuno ne tragga le conclusioni che crede. Se può servire
il mio parere, Takeda non rinuncia a vendicarsi e neppure rimanda la vendetta,
e comunque non fa quello che fa (o non fa) solo perché gli è rimasta incinta la
ragazza. Takeda, come si dovrebbe capire da un balloon dell’ultima tavola, vede
un orizzonte più vasto dove la vendetta resta un piccolo particolare, un
elemento di un tutto, dove ci sono cose più importanti e meno importati da
valutare, e l’importanza è data dal punto di vista da cui si guarda (il posto
di ciascuno nella ruota della medicina, direbbe Shyer).
Quando i gerarchi nazisti
furono processati a Norimberga si difesero dicendo che avevano solo eseguito
degli ordini. Ecco, ci sono ordini che a volte non si devono eseguire.
Il tenente Woodward, ne "La lunga marcia", dice
a un certo punto che i grandi uomini si dividono in due categorie: quelli che
comandano e quelli che non obbediscono. Takeda ha avuto un incarico, una
missione. Per lui è il credo. È stato educato a obbedire, fino in fondo. Per
noi sembra facile dire: non obbedire, non vendicarti. Sarebbe stato assurdo se
Takeda avesse potuto così facilmente liberarsi dai condizionamenti. Takeda però
compie un percorso in cui si confronta con una realtà diversa da quella che
conosce, e capisce la portata di altri valori oltre a quelli del Bushido. Da
uomo orientale da ragiona secondo percorsi diversi dai nostri, gli serve un
escamotage per non tradire ciò in cui ha sempre creduto. Anche perché c’è del
buono anche nei suoi principi. Non abiura tutto, non rinnega i suoi maestri, fa
la scelta più intelligente (secondo me): si adatta, anziché trasformarsi. Trova
negli stessi insegnamenti dell'Hagakure il modo per adeguarsi alla nuova realtà,
esterna e interiore. In pratica: solo gli ottusi applicano le regole alla
lettera, senza riflettere sul loro significato (e applicare una regola
significa prima di tutto agire in un certo modo anziché in altro, dunque
relazionarsi e interagire con la realtà, trasformare un principio in un fatto).
Poi, tutto scorre, le cose cambiano, e il punto di vista da cui si valutano i fatti
della vita si modifica. Come la valutazione dell’importanza delle cose, della
loro priorità. Diceva qualcuno che invecchiare è come scalare una montagna: più
sali più il respiro di fa affannoso e le gambe cedono, ma quanto si allarga il
panorama! Io che sono nel secondo tempo della vita confermo che è vero. Anch’io,
come Takeda, credo di essere lo stesso di tanti anni fa, non rinnego il mio
passato, ma sono indubbiamente molto diverso (secondo me, migliore - qualcuno
potrebbe sostenere il contrario, però): ho un mio personale Hagakure fatto da
tante citazioni di tanti scritti, ma lo interpreto in modo diverso da un tempo
e soprattutto oggi sottolineo come importanti certe frasi diverse da quelle di
una volta”.