Il centonovantesimo
numero in edicola oggi contiene la maggior parte dell’avventura di Zagor alla conquista del Monte Leigh.
IL GIGANTE DI PIETRA
Una spedizione lascia Fort King diretta
verso le Montagne Rocciose. Ne fanno parte due esperti alpinisti: il veterano
Jerry Lachman e il ricco uomo d’affari Norman Boswell, accompagnati dai tre
giovani nipoti di quest’ultimo, alla loro prima ascensione. Il gruppo intende
scalare la vetta del monte Leigh, un inviolato gigante di pietra. Per Lachman
si tratta del secondo tentativo: anni prima, sulla stessa cima, mentre si
arrampicavano insieme, suo fratello Sandy scomparve in circostanze misteriose e
Jerry spera adesso di ritrovarne il corpo e ricostruire ciò che avvenne. Zagor
scopre, però, che qualcuno sta tramando contro la spedizione e si mette sulle
tracce dei carri insieme a Cico.
Infatti non sono soltanto le frecce degli indiani
a minacciare la spedizione: è chiaro che uno dei membri del gruppo trama
qualcosa ai danni degli altri. Ma chi? E perché? Deciso a risolvere il mistero,
Zagor si aggrega agli alpinisti abbandonati dalle loro guide, e li conduce
verso le Montagne Rocciose attraverso le sterminate praterie, in gran parte
ancora inesplorate.
La spedizione, sotto la guida di Zagor,
giunge finalmente a destinazione alle pendici del gigante di pietra. L’impresa
ha inizio in un clima cupo e minaccioso come le nubi che si addensano sulla
vetta. E mentre giungono là dove le nevi sono perenni e soltanto un insidioso
ghiacciaio li separa della cima, la mano omicida di un traditore è pronta a
colpirli mentre un’altra inquietante minaccia sembra incombere sul gruppo: c’è
infatti chi dice di aver visto il fantasma di un uomo scomparso fra i ghiacci
molti anni prima, qualcuno che aspetta al varco il proprio fratello, l’unico a
sapere la tragica verità sui fatti accaduti in quel giorno lontano...
Moreno Burattini
riesce a costruire una storia emotivamente coinvolgente e ricca di umorismo,
intrighi, azione, rimandi classici e scenari naturali di struggente bellezza,
in un contesto evocativo di scoperte pionieristiche ed avventurose.
Una storia di ampio respiro, basata su un modello narrativo
spesso usato da Nolitta/Bonelli (ma anche da altri autori zagoriani, in misura
minore), vale a dire quello della spedizione in “terra incognita”, innestandolo
su un tema del tutto nuovo per il personaggio: l’alpinismo.
In tal modo lo
sceneggiatore richiama alla mente dei lettori gli epici
viaggi, ad esempio, di “Odissea
Americana”, “Acque misteriose”,
“La marcia della disperazione”, “Il buono e il cattivo”, e lo fa
arricchendo la storia di richiami suggestivi e affascinanti alla storia
dell’alpinismo e all’Italia (da appassionato dei monti valdostani la citazione
della conquista del Monte Bianco mi ha personalmente mandato in “brodo di
giuggiole”!); il tutto immerso in una trama da “romanzo gallo” fatta di
tensione e mistero in cui, come è giusto che sia, la soluzione è riservata al
finale della storia.
La
circostanza, poi, che il nemico si celi fra i componenti della spedizione
consente a Burattini di “giocare” con i vari personaggi delineandoli in modo
approfondito sia dal punto di vista fisico, che dal punto di vista caratteriale
(quello, a mio parere, di gran lunga più importante).
Uno dei punti di forza delle migliori storie di Burattini è infatti l’umanità dei
personaggi, che qui mostrano le proprie debolezze, le angosce e le ossessioni
di esistenze connotate dal desiderio del possesso. E proprio dal contrasto tra
la bieca materialità del “possedere” ed il magico silenzio dei monti -
spettatori involontari delle umane debolezze - emerge tutta la potenza
espressiva del racconto.
Abbiamo uno Zagor non solo in gran forma e completamente a suo
agio nelle scene di montagna ma anche ricco di un’umanità straordinaria, e un
Cico pienamente protagonista anche nella sua veste di catalizzatore di guai non
voluti; un Lachman, dotato di una personalità psicologicamente molto forte ed
uno stato d’animo tormentato, malinconico e triste; un Boswell che a un certo
punto sembra diventare uno spietato assassino (in netto contrasto con la
persona che avevamo conosciuto in precedenza) ma che dopo poche pagine
comprendiamo essere un personaggio che ha agito per una forma
(discutibilissima) di difesa e non per bieco interesse.
Molto bella
anche la conclusione, nella quale è condensato il disvelamento di tutti i segreti, gli intrighi e le rivelazioni: i lettori non fanno in tempo a scoprire il segreto di Lachman, che
immediatamente vengono folgorati dal ruolo che Boswell aveva nell’intrigo
iniziale, che a sua volta si scopre poi essere un contro-intrigo teso ad avere
salva la vita degno della migliore tradizione
giallistica.
La riconciliazione finale con i nipoti superstiti è molto
toccante e per nulla forzata, come pure le riflessioni di Zagor, che chiudono
la storia con un pizzico di retorica positiva che nelle avventure zagoriane non
è mai fuori posto.
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Michele Rubini |
Dopo aver disegnato l’Almanacco dell’Avventura del 2004, Michele Rubini è qui al suo esordio
sulla serie regolare.
Il suo tratto è in continuo crescendo durante tutta la storia:
molto vario e fantasioso nelle fisionomie, utilizza inquadrature sempre nuove,
coinvolgenti e dinamiche, che denotano una buona padronanza della
sceneggiatura.
Il meglio lo dà, a mio giudizio, negli scenari naturali: le sue
praterie sono sconfinate e su di esse pascolano bisonti davvero realistici; il
suo monte Leigh è spettacolare, pauroso, aspro, impervio e gelido.
Qui di seguito vi riporto alcuni
interessanti interventi di Moreno
Burattini postati sul Forum SCLS (durante la pubblicazione della storia
nelle edicole) tra il settembre 2007 e il gennaio 2008.
Sul tema dell’alpinismo:
“In effetti sì, l'alpinismo
è abbastanza inedito come argomento per Zagor. Io credo che la saga dello
Spirito con la Scure sia stata impostata fin dall’inizio, da Nolitta, come un
succedersi di una grande varietà di argomenti (diversamente, insomma, dalle
tematiche western un po’ sempre uguali in Tex) e dunque sono costantemente a
caccia di spunti originali (almeno per la serie).
Riguardo alla
documentazione e alla passione... beh, circa la montagna, di libri ne ho letti
un bel po’ e forse di più, ma devo dire che già lo facevo per mio diletto,
essendo nato un po’ collina (e poi rotolato giù, come canta qualcuno) e da
sempre sono appassionato di trekking, anche se non sono un provetto alpinista
come invece è Boselli.
L’idea di fare una storia
sull’alpinismo mi è venuta in mente dopo aver letto tutto quello che c’era da
leggere sulla vita (e sulla morte) di George Mallory, che morì nel 1924
tentando di scalare l’Everest”.
Dato che Boselli
veniva definito un provetto alpinista, è stato domandato a Moreno se avesse ricevuto dei consigli da lui per questa storia:
“Boselli ha dato un buon
numero di consigli nel corso della lavorazione. Per esempio ha fatto
ridisegnare a Rubini decine di tavole già fatte per inserire i cappelli sulle
teste dei personaggi durante la scalata.
Riguardo alla storia, ho
cercato di dare il maggior spessore possibile ai personaggi, perché penso che
la montagna (come anche il mare aperto, non quello degli ombrelloni) abbia la
capacità di tirare fuori quello che ognuno ha dentro, grazie al silenzio,
all’immensità, alla solitudine. E’ probabile che George Mallory, il pioniere
dell’alpinismo scomparso durante una ascensione negli Anni Venti, non fosse
cosciente neppure lui di che cosa significava quella frase, "Because It Is
There", "Perché c’è", risposta a chi gli chiedeva perché voleva
scalare l’Everest. Forse voleva solo fare una battuta. Però continuiamo a
ripeterla ancora oggi, e io ci vedo una risposta metaforica ai miei stessi
dubbi esistenziali: se hai un problema, non voltare la testa, non fingere che non
ci sia, è il tuo Everest, c’è, e devi scalarlo”.
Alla domanda se la scelta del nome Boswell richiamasse quello di
Boselli, Moreno rispondeva così:
“Il nome di Boswell è
ispirato a Boselli, che è stato un discreto alpinista in gioventù (con scalate
anche in Islanda e sulle Ande), e che ancora oggi si arrampica sulla Grigna
(sopra Lecco). Il nome Sandy dato al fratello di Lachman è ispirato a Sandy
Irvine, il compagno di scalate di George Mallory. Mallory è il pioniere
dell’alpinismo il cui cadavere è stato ritrovato nel 1999 sull’Everest dopo
essere scomparso in un tentativo di scalata nel 1924. Irvine invece non è stato
ritrovato (aveva lui la macchina fotografica e solo ritrovando quella
scopriremo se Mallory e Irvine hanno raggiunto la vetta dell’Everest prima di
scomparire durante la discesa).
Del resto il nome completo
di George Mallory è George Leigh Mallory e non a caso la montagna che scala
Zagor si chiama Monte Leigh.
Al di là dei nomi, la
faccenda del fratello scomparso e dell’altro tornato a valle è ispirato alla
nota vicenda di Reinhold Messner (ma ovviamente c’è la suggestione originaria
del caso Mallory/Irvine)”.
Alla domanda se la scelta dei nomi Nick e Bart per i due carovanieri fosse un omaggio a Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti, Moreno ha
risposto:
“Mi stupisce la domanda
perché in realtà non si è trattato di un "omaggio" nel senso
consapevole del termine (del resto perché mai due conducenti di carri di una
spedizione di alpinisti dovrebbero essere chiamati con i nomi di Sacco e
Vanzetti, se non si parla né di anarchia né di errori giudiziari né di pena di
morte?). Però è vero, lo ricordo, che mentre scrivevo ero rapito dalla canzone
"Here's to you" di Joan Baez, che avevo in sottofondo e che fa parte
della colonna sonora scritta da Ennio Morricone per il film "Sacco e
Vanzetti". Il ritornello della canzone (il testo dovrebbe essere di Joan
Baez, appunto) dice e ripete continuamente:
Here's to you, Nicola and Bart
Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours
That agony is your triumph
E cercando due nomi, nel
sentire ripetere quasi ossessivamente "Nicola and Bart", ecco venire
spontanei Nick e Bart. A volte succede anche questo. Soprattutto a un
morriconiano come il sottoscritto”.
Interessanti,
poi, queste argomentazioni di Moreno
sul personaggio di Cico e sulle sue
gags, in particolare quella in cui viene pescato da Knofler e dal soldato ad
origliare:
“Se si comincia a discutere
se Cico sia o non sia “rincojonito” sulla base delle sciocchezze, delle
dabbenaggini e dei pasticci che ha combinato in quarantasei anni di carriera,
inizieremmo una discussione senza senso, perché Cico non è un idiota né un
assennato, non è un cretino né un saggio, è solo e semplicemente Cico,
personaggio contraddittorio e sfaccettato, geniale e pasticcione, sfaticato e
ingegnosissimo, imbelle e imbattibile, e così via.
Cico, secondo me, è tipo
da impaperarsi e dire una frase fuori luogo, per l’emozione, in un frangente
come quello (la fifa a volte gioca brutti scherzi e anche a me è successo a volte
di peggiorare le cose cercando di accampare scuse, se messo alle strette).
Però, se un impaperamento del genere può sembrare eccessivo, possiamo pensare
che Cico ha buttato lì una battuta ironica cercando intanto di guadagnare tempo
per cercare una via di fuga dalla brutta situazione in cui si è cacciato (uno
dice qualche frase che spiazza gli avversari e intanto si guarda attorno per
capire come sfuggire loro)”.
Da ultimo, un argomento abbastanza tecnico.
Così Moreno risponde
a un forumista che gli fa notare che secondo lui le corde a cui erano
appesi Zagor e company a un certo punto della vicenda non erano in grado, in
caso di caduta, di evitare la morte a causa dell’inevitabile colpo di frusta,
in particolare di Lachman, il primo della cordata:
“Ci sono sicuramente
migliaia di alpinisti in grado di discutere sull’argomento con dovizia di
riferimenti tecnici, e io non ho la pretesa di controbattere con cognizione di
causa, essendo solo uno che fa trekking e non avendo mai piantato un chiodo in
una parete se non per attaccare un quadro in casa mia. Però, alcune
considerazioni da profano posso farle io come possono farle tutti.
Innanzitutto va detto che
si può morire inciampando in un marciapiedi e battendo la testa, e si può
sopravvivere dopo una caduta da un aereo senza paracadute, come è successo ad
alcuni paracadutisti a cui non si è aperto. Per cui, secondo me, in certi casi
non si può dire mai con certezza "sicuramente ci si salva",
"sicuramente si muore". Giustamente è stato citato il caso dei due
alpinisti del film La morte sospesa,
e si è ribattuto dicendo: sì, ma quello è un caso più unico che raro, tutti gli
esperti si sono meravigliati che lo scalatore precipitato nel crepaccio sia
sopravvissuto. Verissimo, tutti si sono meravigliati, però è accaduto. A volte
accade anche l’incredibile. Sarà un caso su un milione, ma accade. Come dice
Geppetto a Pinocchio: i casi sono tanti.
Poi, se il caso
improbabile capita in un quasi-documentario come La morte sospesa, figuriamoci
se non può capitare in un fumetto! La serie di Zagor si basa sul presupposto
che non ci debbano porre troppe domande, sul fatto che si sospenda
l’incredulità. Certo tocca all’abilità dell’autore far restare i lettori con la
bocca aperta e non storta, ma insomma se si crede che lo Spirito con la Scure
possa guarire perfettamente dopo aver ricevuto colpi di pistola e coltellate
(senza mai restare zoppo, o leso), e non perda mai i denti facendo a cazzotti,
beh... ci può stare anche che se il nostro eroe cade con quattro amici in un crepaccio
e resta appeso alle corde, nessuno di loro muoia per il colpo di frusta.
Queste sono però
considerazioni generali, adesso veniamo al particolare.
La sequenza del crepaccio
l’ho discussa con Mauro Boselli che, a differenza di me, è invece un provetto
alpinista.
E’ stato lui a suggerire
la tecnica con cui Boswell pianta la piccozza nel ghiaccio e vi arrotola
attorno la corda a cui restano appesi gli alpinisti caduti. Va detto che sul
ghiacciaio c’è sempre uno strato di neve ghiacciata, non è una pista di
pattinaggio, e le piccozze sono fatte apposta per esservi piantate in
profondità in caso di pericolo.
Boselli sostiene (e io
spero di riferire il suo pensiero senza attribuirgli castronerie mie) che non
si muore per il colpo di frusta cadendo da una così piccola altezza. Cioè, si
può morire se un alpinista cade per cento metri e resta appeso, ma Zagor e
compagni sono caduti per dieci metri, non per cento. Quello che è caduto di più
è Lachman (il primo), che infatti è svenuto. Poi Zagor è una roccia, non sviene,
e meno che mai svengono i tre sopra di lui caduti per ancor minor altezza.
Le corde poi sono state legate in modo tale da non
stringere a cappio i toraci, dunque non c’è neppure pericolo di sfondamento
delle costole e dei polmoni. Casomai c’è da chiedersi se una corda di canapa
possa reggere il peso di quattro uomini, ma evidentemente quella corda ha
retto.
Boselli dice che nel
fumetto ciò che manca è far vedere come hanno fatto gli alpinisti appesi, dopo
la caduta di Zagor, ad arrampicarsi su: occorrono manovre un po’ complicate che
non sono state mostrate ai lettori per brevità.
Personalmente ho tratto
spunto per quella scena, oltre che da La morte sospesa, anche da Vertical Limits:
chi l’ha visto, ricorderà che il film comincia con una famiglia di alpinisti
(padre e due figli) che cadono mentre si arrampicano su una parete verticale,
restando appesi alle corde. Il padre si sacrifica tagliando la corda, per
salvare i figli. Nessuno di loro muore per il colpo di frusta”.