Cinquant'anni fa usciva nelle edicole il primo albetto a striscia di Zagor.
Per festeggiare questa importante ricorrenza ho voluto scrivere un breve racconto con Zagor come protagonista.
Naturalmente è una storia "non ufficiale", scritta come semplice
divertissment...
La vicenda si colloca idealmente tra le ultime due vignette che vedete riprodotte qua sotto, tratte dall'avventura
Zagor racconta...
Spero che vi piaccia!
LA CAPANNA NELLA FORESTA
di Marco Andrea Corbetta
I rami degli alberi della foresta di Darkwood erano scossi da un forte vento. Un giovane uomo osservava dall'alto di una roccia il bosco sotto di lui, le fronde che ondulavano al vento come un mare in tempesta. L'aria sferzava la sua alta figura, scompigliandogli i capelli e facendo ondeggiare sulle sue possenti spalle le frange della rossa casacca di pelle senza maniche che indossava. Il disegno di una grande aquila nera racchiusa in un cerchio giallo era ben visibile all’altezza del petto dell’uomo. Le nuvole, nel cielo, correvano veloci, lasciando passare i raggi del sole in colonne di luce che illuminavano a chiazze il paesaggio. L’uomo alfine si decise, scese dalla roccia e si inoltrò con prudenza nella foresta.
Poco dopo, si acquattò nei cespugli del sottobosco e cominciò ad avanzare strisciando. Aveva notato un uccello prendere d'improvviso il volo, segno che qualcosa o qualcuno lo aveva spaventato. Avanzò carponi con circospezione verso il luogo dove aveva notato il movimento. Fu un attimo. Un indiano wyandot spuntò d'improvviso da dietro un albero, con il viso dipinto dei colori di guerra, e gli si lanciò addosso brandendo un grosso coltello. L’uomo riuscì con agilità a schivare il fendente poi, con un movimento svelto della mano, allontanò l’indiano da sé con un portentoso pugno. Alzatosi in piedi, gli tirò un calcio sul viso, colpendolo alla tempia e facendolo svenire.
In un attimo altri sei wyandot spuntarono come fantasmi da dietro i tronchi degli alberi e cominciarono a correre urlanti verso di lui. Non perse tempo: con la destra impugnò la scure che gli pendeva al fianco e attese a piè fermo gli avversari. Quando due degli indiani gli furono vicini, l’uomo lanciò un terribile grido di guerra e, muovendosi veloce come un fulmine, fece roteare la scure, abbattendoli. Sorpresi dall’inaspettata reazione, gli altri quattro indiani si fermarono guardinghi. Poi, notando che l’uomo non accennava ad attaccarli, iniziarono una lenta manovra d’accerchiamento.
“Non voglio combattere i miei fratelli rossi…” disse l’uomo, cercando di tenere un tono della voce pacato, nonostante la tensione.
“Non sei un nostro fratello” replicò uno dei wyandot. “Sei un uomo bianco!”.
“Non avete udito ciò che è accaduto dieci giorni or sono al Grande Raduno di Primavera?”, domandò il bianco. “Io sono Za-Gor-Te-Nay, lo Spirito con la Scure, l’inviato di Manito!”.
All’udire quelle parole, i pellerossa indugiarono. Poi, il più baldanzoso tra loro rispose con un sogghigno: “Sei l’uccisore del nostro capo, Oga-Ito… Sarà un grande onore per noi prenderti la vita!”. E, con un veloce movimento, lanciò il suo tomahawk contro l’avversario.
L’arma sfiorò il capo di Zagor e andò a perdersi nel folto sottobosco. Nel frattempo, gli altri tre wyandot gli si avventarono contro. Zagor passò velocemente la scure nella mano sinistra, con la destra estrasse la pistola dalla fondina che gli pendeva dal fianco e fece fuoco. Sparò due colpi, e i due pellerossa più vicini caddero al suolo, per non rialzarsi più. Zagor bloccò con la sua scure il tomahawk del terzo wyandot che lo aveva caricato e gli sbatté violentemente sul viso la canna fumante della pistola.
Purtroppo, l’indiano che in precedenza aveva mancato il bersaglio con il tomahawk aveva estratto dalla cintola il coltello e lo aveva lanciato con maggiore precisione. La lama si conficcò nella spalla destra dello Spirito con la Scure e un’ondata di dolore raggiunse il suo cervello. Con un ultimo sforzo dettato dalla rabbia, Zagor lanciò la sua scure contro l’indiano centrandolo in mezzo alla fronte e spaccandogli il cranio.
Appoggiandosi a un tronco, Zagor estrasse con un gemito il coltello dalla spalla. Per poco non svenne per il dolore. Quindi, facendosi forza, recuperò la scure e la pistola che gli era caduta a terra quando era stato colpito e riprese faticosamente il cammino. Se fosse riuscito a raggiungere qualche avamposto dei bianchi avrebbe potuto trovarvi qualcuno che gli ricucisse la ferita che perdeva sangue in abbondanza. Dopo una mezz’ora di faticoso arrancare tra i boschi, tuttavia, sfinito, cadde a terra privo di sensi.
* * *
Al suo risveglio, Zagor si trovò in un luogo in penombra, circondato da un forte odore di fumo. Non aveva più la casacca addosso e, a torso nudo, si trovava sdraiato su un lettuccio rudimentale, coperto da una folta pelliccia. A mano a mano che i suoi occhi si abituarono alla penombra, si guardò intorno. Riconobbe attorno a sé le pareti di legno di una capanna. Sulla brace che ardeva nel camino posto vicino al giaciglio erano adagiate alcune foglie aromatiche che inondavano l'ambiente di un fumo dall'odore acre. La spalla non gli doleva, ma provava una sensazione come di fastidio, di insensibilità. Su di essa era stato applicato un impacco di muschio con degli unguenti maleodoranti, che tuttavia avevano evidentemente avuto un effetto positivo. Non si sentiva neppure troppo debole, e fece per alzarsi sui gomiti.
In quel momento la porta della capanna si aprì ed entrò una figura che, non appena lo vide nell’atto di alzarsi, si avvicinò in fretta al giaciglio e lo spinse di nuovo giù. Sul suo petto si appoggiarono due mani, lunghe ed affusolate. Guardò in viso la persona, e vide un volto femminile. Era una donna anziana, dai lineamenti indiani. Senza dire una parola, sollevò il muschio dalla spalla di Zagor e controllò la ferita. Poi ripose con cura quel medicamento naturale e prese una ciotola. Con una mano dietro la nuca aiutò Zagor a sollevare la testa e gli portò alle labbra la ciotola. Era acqua fresca. Zagor ne bevve molta, poi la donna scostò la ciotola dalle labbra e gli riappoggiò con delicatezza la testa.
Zagor sentì un cigolio. La porta era stata aperta un'altra volta ed era entrata una figura chiaramente maschile. Pur non riuscendo ancora a vederlo bene in faccia, notò che l’uomo aveva i capelli lunghi e indossava un vestito di pelle di daino. Si trattava inequivocabilmente di un pellerossa. Quando si avvicinò al letto, Zagor vide un volto abbronzato solcato dalle rughe della vecchiaia.
“Ti saluto, Za-Gor-Te-Nay” disse l’uomo. “E’ un onore per me ospitarti nella mia capanna”.
“Salute a te” rispose Zagor. “Ti ringrazio per l’aiuto che mi hai dato, ma… come fai a conoscere il mio nome?”. Con un gesto che conteneva affetto, l'indiano invitò la donna ad uscire dalla capanna e si inginocchiò a fianco del ferito.
“La tua ferita non è grave, e mia moglie Piccola Luna ha voluto prendersi cura di te personalmente” disse l’uomo appoggiando una mano sulla spalla sana di Zagor. Poi aggiunse sorridendo: “Le voci viaggiano veloci nella foresta e la notizia dell’avvento dell’inviato di Manito è giunta anche a me” disse il vecchio sorridendo.
“Posso sapere il tuo nome?” chiese Zagor.
“Mi chiamo Lupo Grigio. Sono un Mohawk e da trent’anni vivo in questa capanna con mia moglie, che è la cosa più bella di tutta la mia lunga vita”.
Il dialogo con Lupo Grigio continuò a lungo.
Il pellerossa rivelò al giovane di essere stato esiliato dalla sua tribù molti anni prima, quando si era reso colpevole dell'accidentale uccisione del padre di Piccola Luna, che voleva impedire le loro nozze. Secondo la legge rossa, dopo quatto primavere avrebbe potuto fare ritorno, ma senza nessun diritto tribale, sarebbe stato ignorato da tutti, non avrebbe potuto prendere la parola nei consigli e fumare il calumet della pace. Allora, insieme a Piccola Luna, si era allontano dalla tribù e non vi aveva più fatto ritorno.
Zagor gli raccontò della circostanza in cui era stato ferito, della missione di giustiziere di Darkwood che si era imposto e del fatto che fosse alla ricerca di un luogo adatto ove costruire il proprio rifugio. L'indiano rimase ad ascoltarlo con attenzione, ed il suo sguardo era quello di un padre amorevole. Al termine del racconto, Lupo Grigio disse a Zagor che poteva rimanere finché avesse recuperato le forze e fosse stato in grado di riprendere il cammino. Poi, salutandolo, uscì dalla capanna. Zagor si sentiva ancora stanco e si addormentò.
* * *
I giorni passarono veloci e Zagor riprese in fretta le forze. Il giorno successivo era già in piedi, due giorni dopo tornava a esercitarsi a lanciare la scure con il braccio che era stato ferito, e il terzo giorno sorprese i suoi due ospiti volteggiando di ramo in ramo fra gli alberi della foresta. Il quarto giorno Zagor andò a caccia con Lupo Grigio, e il suo aiuto e la sua mira infallibile furono molto apprezzati.
Quindi arrivò il momento del commiato. Zagor ringraziò nuovamente Lupo Grigio e Piccola Luna per l’aiuto e le cure che gli avevano così generosamente prestato.
“A cinque giorni di cammino da qui, nella direzione dove il sole tramonta, troverai il luogo di cui ti ho parlato: la palude di Mo-Hi-La”, disse Lupo Grigio.
I due uomini si guardarono negli occhi. “Ancora grazie”, disse Zagor con affetto.
“Buona fortuna, ragazzo”, rispose il vecchio pellerossa. “Ti faccio un solo augurio: che la tua sete di giustizia non si plachi mai, inviato di Manito!”.
Compreso il significato delle parole dell’uomo, Zagor sorrise. Gli strinse fraternamente la mano e si allontanò, inoltrandosi nella foresta.
FINE